Dal blog di Vanity Fair di Tamara Ferrari (malanova.vanityfair.it)
«Avevo superato tre colloqui di lavoro. All’ultimo, l’esaminatore mi aveva persino fatto i complimenti. Ma subito dopo è arrivata la domanda che temevo: “Signorina, mi dia i suoi documenti”. Sulla carta d’identità c’era il mio nome da uomo. Il lavoro è andato a qualcun altro». Michela è nata maschio, ma da tre anni è donna.
Non si è operata, non ne ha nessuna intenzione. «Non voglio subire
mutilazioni, sono in perfetta sintonia con il mio corpo attuale. Voglio
solo essere riconosciuta per quello che sono», dice. Ma in Italia c’è
ancora tanta discriminazione nei confronti delle persone come lei. E, là
dove non colpisce la transfobia, ci pensa la burocrazia.
Anche Michela, così come Nicole (della quale avevamo parlato qui) e Monica (la sua storia la trovate qui), ha un corpo da donna, ma documenti da uomo. «In
Italia per cambiare l’indicazione di nome e sesso sui documenti viene
richiesto un lungo e costoso iter medico e giuridico che può durare
anche 6-10 anni e che troppo spesso viene concesso solo dopo
l’avvenuta sterilizzazione chirurgica», mi spiega al telefono Michela,
«Durante questo periodo si è costrette a convivere con l’aspetto desiderato ma con documenti che non ci rappresentano più.
Le conseguenze sono problemi inevitabili sul lavoro, che spesso viene
perduto oppure negato, e continue violazioni della privacy».
Come per Nicole e Monica, anche Michela da quando è donna ne ha passate delle belle. E non solo lei, ma anche il suo compagno. «Lui ha fatto il percorso inverso al mio: nato donna, è diventato uomo da qualche anno. Quando era donna, è stato sposato ed ha avuto due figli.
Ma poi ha capito che non poteva continuare a nascondere e a reprimere
la sua vera natura, ed ha trovato il coraggio di diventare uomo».
«Noi due viviamo in sintonia, gli unici problemi arrivano da questa
società nella quale viviamo, che è impreparata e intollerante e che,
sulla base di una legge vecchia 32 anni, ci costringe a vivere con un
nome, con un’identità anagrafica che non ci appartiene più. Così, per
esempio quando paghiamo con la carta di credito, ci capita di
dover spiegare perché sui documenti che mostriamo c’è un nome maschile,
o nel caso del mio compagno femminile. Stessa cosa quando
ritiriamo delle analisi, un pacco o preleviamo dei soldi allo sportello
delle poste e, ovviamente, tutti i presenti vengono a conoscenza del
nostro passato e della nostra situazione attuale. Per non parlare delle
opportunità di lavoro che vanno perdute».
Michela è una veterinaria. «Non avendo ancora i
documenti né il codice fiscale con la mia nuova identità da donna, non
posso firmare e timbrare prescrizioni e fatture. Ho dovuto rinunciare a svolgere la mia professione.
E, nel frattempo, ho bruciato tanti colloqui di lavoro, che sono finiti
male appena ho rivelato di aver cambiato sesso. Tanto che, alla fine, ho cominciato a omettere il mio nome anagrafico sul curriculum. E alla fine un lavoro l’ho trovato, anche se solo per pochi giorni al mese».
Michela è consapevole che quello che le sta capitando non è degno di un Paese civile. Da mesi lotta per difendere i suoi diritti, e adesso anche quelli delle altre e degli altri come lei. «Ho avviato una petizione su Change.org per chiedere al presidente della Camera, Laura Boldrini, e a quello del senato, Pietro Grasso, di accelerare
l’iter di approvazione di una proposta di legge sulla modificazione
dell’attribuzione di sesso e per il divieto di intervenire
chirurgicamente sui bambini nati con atipicità genitali, così da
garantire dignità e inserimento sociale alle persone trasgender e
transessuali. Invito tutti a firmare e aiutarci, perché in Italia siamo tanti, senza diritti e discriminati».
Leggi sul sito
Firma la petizione http://goo.gl/BFjLxD
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