Sono nata a Milano ventisei anni fa. Un bambino, maschio. O
così almeno sosteneva il dottore che mi visitò appena nata. Ma la mia
non è una storia di disforia. Come mia madre mi racconta spesso, appena
nata continuavo fissare ostinata quel pediatra che mi girava e rigirava
per svolgere gli accertamenti di rito, tanto che, finita la visita, il
dottore si lasciò sfuggire: “Devo farvi i
miei auguri, signori, questo bambino darà filo da torcere”. E così è
stato: la mia non è una storia di disforia, ma di libertà e di lotta, di
dignità e amore, seppur attraverso il dolore. Sono stata amatissima dai
miei genitori, sempre divisi, loro malgrado, tra il desiderio di
lasciarmi libera di esprimermi e il peso del giudizio degli altri, che
trovavano scandaloso avere un figlio che “faceva la femmina” e
lasciarglielo pure fare. Con loro ho vissuto serena, sapendo che ero
meritevole di affetto come chiunque altro, pur essendo diversa, e questo
mi ha resa la persona decisa che sono oggi. Il loro amore mi ha salvata
dall’odio di me, dal vedermi sbagliata, portatrice di una “malattia”,
dal desiderio di autodistruzione – che tuttavia, quasi inevitabilmente,
per me come per tant* di noi, sono arrivati.
La
vera malattia l’ho conosciuta nella compulsione dei miei coetanei a
umiliarmi, demonizzare la mia differenza con scherzi crudeli, botte,
violenze psicologiche, e nella complicità indulgente di adulti ed
educatori. Il confronto con il mondo esterno era un dramma costante, che
mi aveva gradualmente emarginata, irreparabilmente convinta che, per
“quelli come me”, non ci fosse posto a questo mondo. Il dolore mi aveva
divisa da me stessa, incapace di trovare le parole per raccontare chi
ero, come mi sentivo, percepivo una rottura dentro di me. Come
era possibile che la mia famiglia mi avesse amata tanto, se non ero che
un fallimento, meritevole solo di scherno e umiliazione?
Mi
ci sono voluti venticinque anni per guardare indietro e scoprire con
meraviglia che, in realtà, non vedo nessuna rottura, ma una irriducibile
continuità nella mia esistenza, che mi è stata restituita dalla mia scelta
di affermare la mia identità. Quando a cinque anni pensavo al mio
futuro da adulta, vedevo su per giù quella che sono ora (magari un po’
più sorridente), non certo quello che gli altri pensavano che avrei
dovuto essere. Grazie all’educazione libera e amorevole che ho
avuto in famiglia, non ho mai pensato che essere nata con certi genitali
riassumesse e preordinasse in qualunque modo quella lunga serie di
aspettative e norme che invece la società, presto o tardi, impone su
tutti noi. Aspettative su chi dovremmo essere, cosa dovremmo fare nella
vita, quali i ruoli a noi concessi, il linguaggio e le forme di
espressione giuste per noi. Del resto, che cosa hanno mai saputo gli
altri di chi ero io, cosa sentivo e desideravo per me? Alla fine, pur
tra le violenze, la sofferenza della negazione e la gioia della scoperta
di me, ce l’ho fatta, ho vinto le forze che volevano distruggere la mia
verità del mio essere, espropriarmi di me stessa per obbedire a dettami
che non ho mai sentito miei.
E, quando si arriva qui, ci
si rende conto di quanto sia spontaneo, in realtà, essere noi stessi, di
quanto lotta e sofferenza risiedano tutte nel combattere contro un modo
che non comprende e non accetta. Per questo mi chiedo, e chiedo a
tutti, perché, dopo queste lotte e conquiste, uno Stato dovrebbe negarmi
la possibilità di vivere la continuità della mia vita, senza dover
forzatamente dare spiegazioni ogni qual volta mostro il mio documento di
identità? Perché dovrei essere obbligata a giustificare,
scusare quasi, la mia esistenza agli occhi degli altri, quando per me
non c’è niente di più sincero e giusto di ciò che vivo quotidianamente?
Perché la mia identità deve essere violata ogni volta che qualcuno
legge, scrive, chiama a voce alta un nome che non è mio, mentre io mi
vedo costretta ad assicurare che non c’è errore, non c’è inganno, e
tentare, spesso invano, di ristabilire in chi ho di fronte una fiducia
ormai sbriciolata dal pregiudizio? E, dall’altra parte, perché, per
porre fine a tutto questo, dovrei essere costretta a subire interventi
chirurgici di cui non sento l’esigenza, volti unicamente a cancellare la
mia individualità e omologarla a un modello imperante binario, sessita e
genderista? Sono stanca di vedere la mia esperienza, insieme a quella
di tante altre persone come me, messa a tacere e stigmatizzata, oppure
strumentalizzata per scopi che non hanno niente a che vedere con il
riconoscimento e la dignità delle persone trans*.
Ricordando
le parole di un’amica molto cara, una delle persone più brillanti che
abbia avuto l’immenso dono di conoscere, mi sento di poter dire che
sogno una società in cui ognuno di noi sia libero di scegliere chi vuole
essere, come vuole esserlo, e le persone che vuole amare,
senza dover rendere nessuna giustificazione per le proprie scelte.
Questo per me è vivere dignitosamente. E per questo ho firmato la
petizione, e ho chiesto ai miei cari e ai miei colleghi di farlo insieme
a me.
Firma la petizione http://goo.gl/BFjLxD
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