Condivido con voi un mio scritto che è girato lo scorso 20 novembre, in occasione del Transgender day of remembrance:
Il 20 Novembre vengono commemorate le vittime di omicidi transfobici che nel 2013 sono state 238 nel mondo, 1374 dal 2008 ad oggi. L’Italia
con le sue 5 vittime si conferma, anche quest’anno, come primo paese
del continente Europeo per omicidi di persone transessuali, pari alla Turchia cui l’anno scorso era seconda.
“È terribile e faremo qualcosa nei primi 100 giorni di governo!”,
risponderebbe un mio ipotetico interlocutore politico. Non possono
esistere, nel 2012, persone giustiziate con colpi di pistola, mutilate
vive, picchiate fino morire di traumi interni solo perché facenti parte
di una minoranza discriminata. Palese che, chiunque, condannerebbe
questi atti di efferata violenza ma cos’è la violenza?
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) definisce la violenza come “utilizzo intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che determini o che abbia un elevato grado di probabilità di determinare lesioni, morte, danno psicologico, cattivo sviluppo o privazione
Leggendo questa definizione mi viene da pensare ad un soggetto. Lo
Stato, nella figura di medici, giudici, giuristi, avvocati, impiegati
pubblici. Poi, però, mi viene da puntare lo sguardo anche sulla società
che ci circonda ed includo in quella definizione massmedia, farmacisti,
datori di lavoro, impiegati postali, padroni di casa. Ogni soggetto cui
siamo costretti a mostrare un documento o il codice fiscale è
potenzialmente artefice di transfobia. Come possiamo essere soggetti
attivi e partecipi di questa società se ogni giorno subiamo danni
psicologici da mal-educati cittadini e istituzioni, cui non interessa
minimamente impegnarsi nel riconoscere la nostra identità e garantirci i
diritti costituzionalmente dovuti a tutti gli italiani, noi compresi?
Lo Stato, nella figura di uno psichiatra di un ospedale pubblico e
nella figura di un endocrinologo di un ospedale pubblico, ci consente
l’avvio dell’iter di transizione prima e ci prescrive ormoni poi.
Lo Stato, tramite la legge – sanatoria 164/82 accetta che la transessualità sia una variante di genere e che, chi ne fa richiesta, debba essere assistito dal servizio pubblico nella transizione.
Questo non è sempre vero, soprattutto al sud Italia, carente di strutture con personale educato alle nostre problematiche, non è così raro incontrare professionisti che si rifiutano di ottemperare al loro dovere o rendono molto difficoltoso l’inizio del percorso. Non è transfobia questa?
Lo Stato, tramite la legge – sanatoria 164/82 accetta che la transessualità sia una variante di genere e che, chi ne fa richiesta, debba essere assistito dal servizio pubblico nella transizione.
Questo non è sempre vero, soprattutto al sud Italia, carente di strutture con personale educato alle nostre problematiche, non è così raro incontrare professionisti che si rifiutano di ottemperare al loro dovere o rendono molto difficoltoso l’inizio del percorso. Non è transfobia questa?
L’interpretazione data alla sopracitata legge, da parte della giurisprudenza, ci permette di cambiare i documenti non
quando cambiamo lineamenti del viso e forme del corpo, ma solo a
seguito di interventi chirurgici genitali. Arriva, per tutte e tutti,
quel momento in cui non si è più credibili nei panni del sesso che il
documento indica, ma allo stato non importa. Ci costringe a
vivere in società con la faccia che dice donna e i documenti che dicono
uomo o con la faccia che dice uomo e i documenti che dicono donna.
Lo stato aiuta, così facendo, le persone transfobiche ad
identificarci come diversi ogni qualvolta sia necessario mostrare un
documento: ufficio di collocamento, lavoro, posta, farmacie, controlli
delle forze dell’ordine, stipula di un contratto d’affitto, iscrizione
alla palestra o quando si richiede la tessera per la raccolta punti al
supermercato. Lo stato, restando in silenzio e additandoci come persone diverse, non si rende colpevole di transfobia?
Come può, la sola legge contro la transfobia impedire, a chi ci
sottopone a colloquio di lavoro, di scartarci con qualche scusa? Non
potremmo, ad esempio, essere inclusi in una qualche categoria protetta,
per facilitarci l’ingresso (e la permanenza) nel mondo del lavoro? La transfobia si combatte dando visibilità positiva alle persone transessuali e, facilitare l’assunzione, è uno tra i modi migliori di favorire l’integrazione.
Che messaggio si dà quando ci mostrano, in tv e sui giornali, solo ed
esclusivamente come donne aggettivate al maschile, come fenomeni da
baraccone cui non è concessa nemmeno la dignità del pronome corretto,
come prostitute e consumatrici di droghe? Perché non si parla di quelle
transessuali integrate nella società che contribuiscono a mandare avanti
l’Italia? Quanti sanno che esistono anche uomini transessuali? Non è transfobia questa?
Quante volte, durante una causa di separazione, l’avvocato consiglia a
persone transessuali (ma anche, purtroppo a persone omosessuali) di non
avanzare troppe richieste al partner (anche se legittime) perché “non
si sa mai che giudice si incontri all’udienza”? Non è omotransfobia
questa?
Come accennavo, non per legge ma per interpretazioni della giurisprudenza,
dobbiamo sottoporci ad interventi chirurgici distruttivi e
ricostruttivi, disposti da un giudice, per poter avanzare richiesta, al
tribunale, di adeguamento dei documenti.
Pare sia più importante aver documenti congrui ai genitali
che alla faccia, ma noi non giriamo nude e nudi tra la gente.
Probabilmente vi passiamo accanto ogni giorno senza che nemmeno ve ne
accorgiate. Porre il focus sulla presenza o assenza di gonadi invece che sull’apparenza non è transfobia?
Avete mai pensato a chi appartiene il vostro corpo?
Volendo fare una mastoplastica esagerata, tatuarvi dalla testa ai piedi,
riempirvi di piercing ovunque, rifarvi naso, polpacci e glutei o
chiedendo di dividere la lingua in due parti, per farla assomigliare a
quella di una lucertola, verrebbe da pensare che appartenga
all’individuo che lo abita. Se siete transessuali non la pensereste
così. Nonostante fior fior di medici che, con visite e relazioni,
dichiarano che non siamo affatto pazzi, ma che dobbiamo cambiare il
nostro corpo per star bene con noi stessi e con gli altri, dobbiamo
chiedere il permesso a un giudice, che autorizzerà un chirurgo ad
intervenire:
Per rimuovere il seno e creare un simil pene ad un uomo transessuale
(ftm) o creare una simil vagina ad una donna transessuale (mtf) serve,
quindi, il benestare di un tribunale.
Dal chirurgo non è richiesto un certificato che dica che siamo capaci
di intendere e di volere, ma una sentenza, che lo autorizzi a
procedere, probabilmente per non essere accusato di lesioni personali.
Occorrerà, quindi, un giudice che valuti la correttezza del nostro
percorso di transizione avviato da medici di ospedali pubblici (già in
atto quando ci si presenta in tribunale), che hanno scritto nero su
bianco una diagnosi: soffriamo della differenza tra la nostra apparenza
esteriore ed il nostro sentire interiore che non ci permette di vivere
serenamente e, per questo, necessitiamo di cure mediche atte a far
coincidere le due cose.
Per raggiungere lo stato di salute ci sarà, quindi, chi ha necessità
di intervenire chirurgicamente e fare, ad esempio, di un pene una
vagina, ma anche chi necessita solamente di vivere nei panni sociali
del genere opposto e che non ha la minima intenzione di sottoporsi ad
interventi mutilanti.
Questo giudice, la cui necessità reale non mi è ancora chiara,
potrebbe leggere la documentazione fornita dal nostro avvocato, composta
di relazioni di psicologi, psichiatri ed endocrinologi, tutti
professionisti statali, che dicono all’unisono, che la persona portata a
giudizio sta seguendo un iter medico trasparente e legale. Sarebbe
troppo facile.
Il giudice prenderà tutta la documentazione medica e, senza farsi troppe domande, chiederà ad un CTU,
un medico assunto dal tribunale ma pagato dalla persona transessuale,
di verificare la documentazione medica fornita. L’udienza verrà così
rimandata di due o tre mesi, per dare tempo al perito di indagare sul
percorso di transizione.
Cosa dovrei pensare quando vengono date motivazioni del tipo
“verificare se è veramente questa la strada migliore da percorrere”,
come giustificazione all’imposizione di tecnico di parte? Devo pensare
che un rappresentante della giustizia italiana non si fidi di un team di
medici della sanità pubblica italiana? Vorrei poi sapere, visto che si
chiede se la chirurgia sia la strada migliore da percorrere, quali
possano essere le possibili alternative per una persona che, come
minimo, prende ormoni da un anno al momento della prima udienza.
Questo ipotetico giudice costringerebbe, forse, un ragazzo FtM a
vivere per sempre con il seno, producendo “l’effetto donna barbuta del
circo” ogni volta che, questo, si trova in contesti sociali?
Decreterebbe, forse, che i medici che hanno condotto questa donna a
diventare uomo si son sbagliati, imponendo di assumere estrogeni per
tornare come prima? Quali competenze ha un giudice del genere
per valutare se far procedere o meno una persona transessuale nel
percorso di transizione?
Richiedere una verifica, inutile, a spese della persona transessuale,
riguardo il lavoro fatto da medici statali non è transfobia?
Poi c’è l’ultimo grave atto di violenza sociale. Ad oggi, sono state autorizzate persone al cambiamento dei documenti solo a seguito di avvenuta sterilizzazione per rimozione chirurgica degli organi genitali, maschili per le MtF o femminili per gli FtM, ad esclusione di un unico caso dove, però, la
sentenza sottolinea che anni di terapia con androcur (il farmaco che,
oltre ad abbassare i livelli di testosterone, distrugge le cellule
testicolari) sono ragionevolmente sufficienti per essere sterile.
Non è transfobia costringere una persona alla sterilizzazione?
Non è transfobia negare il cambio di documenti, ad inizio terapia,
costringendo le persone transessuali ad anni di stigma sociale, in una
società che lo stato non educa alle diversità? Non è transfobia far
firmare un consenso informato che ci avvisa della probabile sterilità,
data dalla terapia ormonale, invece di indicarci come conservare i
gameti?
Ecco qua la transfobia legalizzata, quella continua violenza
psicologica ed esclusione sociale prodotta dal nostro stato
menefreghista, perpetuata ai danni del gruppo dei e delle transessuali.
Prima, ci nega la dignità di aver documenti conformi al nostro essere,
rendendo difficoltoso l’accesso al lavoro e amplificando lo stigma
sociale di tutte quelle persone che incrociano i nostri documenti. Poi,
vestendo la toga di un giudice, decide se autorizzare o meno un chirurgo
ad intervenire sul nostro corpo. Infine, nei panni di una
giurisprudenza basata sul pregiudizio, ci costringe ad essere
sterilizzati per adeguare i documenti, anche se non sentiamo la
necessità di sottoporci a chirurgie distruttive.
Il costo di questa violenza, alla faccia della gratuità del percorso,
tra terapia, psicologi, relazioni psichiatriche, perizie di parte e
spese legali può arrivare anche a 15.000 euro.
Reputo lo Stato primo soggetto da denunciare al varo di una legge che punisca la transfobia, perché colpevole
di alimentare la violenza nei nostri confronti quando dovrebbe essere
al nostro fianco, come garante della nostra salute.
Firma ora la petizione per i diritti delle persone transessuali! http://goo.gl/BFjLxD
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