La sovversione del nome, di Egon Botteghi, Tratto da antispecismo.net
Nel libro della Genesi
si racconta di come un dio “plasmò dal suolo ogni sorta di bestia
selvatica e tutte gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo [inteso
proprio come maschio, perchè la donna verrà creata tre versetti più
avanti] per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo
avesse chiamato gli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del
cielo e a tutte le bestie selvatiche...” (Genesi, 19-20).
Se non fosse che questo
dio crea l'uomo a sua immagine e somiglianza, che lo crea maschio e
femmina e che lo pone a dominare “sui pesci del mare, sugli uccelli del
cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili
che strisciano sulla terra” (idem), potrebbe essere un simpatico mito
sulla nascita del linguaggio umano, anche se mi domando come mai,
all'inizio del mondo, prima ancora dei nomi, questo dio desse già la
distinzione tra animali domestici e selvatici.
Purtroppo invece la
questione della nominazione umana si fonde subito con quella della
dominazione della nostra specie sulle altre (ed anche intraspecifica,
perchè anche la donna viene condotta all'uomo, come prima di lei gli
animali).
D'altra parte questo
potrebbe essere anche un bisogno coevo all'essere umano, quello di
prendere, di afferrare e portare a sé (siamo raccoglitori): con le
nostri mani prensili subiamo il fascino del manipolare, con il nostro
linguaggio cerchiamo di afferrare e dominare il mondo.
Alcune scimmie hanno la
coda prensile e si attaccano agli alberi, altre scimmie hanno il
linguaggio prensile e si attaccano alle parole.
I nomi potrebbero essere una sorta di pollice opponibile, che esercita una stretta da cui è difficile divincolarsi.
“Nomina sunt omina”, i nomi sono destini, dicevano i latini, a cui dobbiamo tanta parte della nostra tradizione patriarcale.
Nel nostro diritto, il
nome che sta ad identificare una persona, è formato da un prenome (o,
ancor peggio, nome di battesimo) e dal cognome, detto anche nome
patronimico, perchè è il Nome del Padre (chissà se prima o poi
riusciremo ad avere anche noi una legge paritaria tra uomini e donne per
il cognome dei figli).
L'articolo sei del
Codice Civile (Libro primo, “delle persone e della Famiglia”, Titolo
primo, “delle persone fisiche”) recita: “ogni persona ha diritto al nome
che le è attribuito per legge. Nel nome si comprendono il prenome e il
cognome. Non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche, se non nei
casi e con le formalità dalla legge indicati”.
Il nome quindi è un
diritto-dovere, una cosa che ti viene concesso e da cui non puoi
liberarti mai più, a meno di non essere una persona a “statuto speciale”
come me.
Io, infatti, come
persona transessuale posso chiedere, con i modi previsti dalla legge, la
rettifica del nome anagrafico, perchè nel mio caso, la nominazione ha
fallito quella presunta presa sulla realtà, c'è stato uno scivolamento
nel non previsto e si è dovuto correre ai ripari.
Questo riparo è la legge 164, del 1982, ottenuta con grandi lotte da parte delle transessuali del tempo.
Però questa rettifica io la pagherò cara, in tutti i sensi.
Mi presenterò, con il
mio avvocato, davanti ad un giudice del tribunale della mia città, il
quale interpreterà la norma a disposizione come avviene ormai da
trent'anni nella stragrande maggioranza dei casi, accertandosi cioè
della mia avvenuta sterilizzazione. Le mie ovaie in cambio di un nome
che mi rappresenti.
Ed io sono anche
“fortunato”: il mio avvocato è prima di tutto un amico dai tempi del
liceo, che mi ha accompagnato e sostenuto; per reddito ho avuto accesso
al gratuito patrocinio ed, essendo la falloplastica un' operazione dagli
esiti troppo incerti, il giudice si acconteterà che io lasci solo le
gonadi sul tavolo operatorio (anche se ci sono alcuni giudici in Italia
che continuano a pretendere la falloplastica per dare la rettifica
anagrafica, il che è un assurdo, dal momento che la falloplastica è
un'operazione ancora sperimentale). Se fossi una mtf dovrei invece
sottopormi alla vaginoplastica che, al contrario di quello che si può
pensare, continua ad essere un' operazione che va incontro a molte
problematiche (necrosi del clitoride, stenosi, o peggio, coartazione
della vagina). [1]
Per questo è
importantissimo che qualcosa si stia muovendo, che ci sia un disegno di
legge, il 405, che aspetta di essere calendarizzato e discusso, che
trasformerebbe questa rinominazione per le persone transessuali in un
procedimento amministrativo, senza più dovere ricorrere a giudizi,
sentenze, operazioni e mutilazioni. Per questo sarebbe importante
sostenere la petizione che chiede la calendarizzazione di questa
proposta di legge http://goo.gl/BFjLxD.
Il nome è una gabbia
così legata al dominio che l'idea stessa di poterlo cambiare, di poterne
uscire, crea una vertigine, una scossa elettrica, un volo nella libertà
inaspettata.
A volte, quando penso
che mi accingo a cambiare il nome che i miei genitori mi hanno imposto,
il cuore balza alla gola, sento come se il terreno si negasse ai miei
piedi, c'è qualcosa che sembrava incredibile che sta invece avvenendo.
Sembra la sovversione di tutte le cose, l'impossibile che si fa
possibile.
La mia realtà si decompone e si ricompone, altrove. E' come un salto quantico.
Eppure ho realizzato di
non essere la sola persona in famiglia che ha avuto dei cambi di nome,
ed il pensiero mi sorprende per la similitudine e per la diversità delle
situazioni coinvolte.
Ho sempre conosciuto
mia nonna materna come “nonna Olga”. Ho scoperto quando lei era già
anziana che in realtà si chiamava Angela.
Suo padre, il mio
bisnonno, era un comunista convinto, di quelli che non prese mai la
tessera del partito fascista, nonostante l'olio di ricino.
Quando nacquero le sue due figlie, intorno agli anni venti del secolo scorso, lui le volle chiamare Olga ed Irene.
Essendo due nomi russi
era allora vietato dalla legge, cosicchè mia nonna visse come Olga per
tutt* tranne che per lo stato italiano, dove era Angela.
Sua figlia, e mia madre, ha una vicenda contraria.
Tutt*, me compreso, credevamo si chiamasse Lyda.
Figurarsi la sorpresa
quando rivelò, io ero già adulto, che il suo vero nome, quello con cui
l'avevano “battezzata” era Anna Carla.
Non so per quale
vicenda del destino, mi sembra che questa Lyda fosse una persona che
venne a mancare, la cominciarono a chiamare così da bambina, finchè lei
non volle riappropriarsi del suo nome anagrafico, in un tentativo di
riappropriarsi di sé stessa e delle sua vita.
Quanta gente ancora mi chiede: “Ma prima come ti chiamavi?”
No, non è una domanda
appropriata da rivolgere ad una persona transessuale: non c'è un prima
ed un dopo, c'è la persona che ti sta ora di fronte e che ti ha già
detto come si chiama.
Il nome non racchiude nessuna essenza intima della persona, come sapeva bene anche Giulietta, non c'è bisogno che si sappia.
La libertà di scegliersi il nome è però grande. Ci si può decidere, ci si può autonominare.
Ripenso a quell'intenso
personaggio che è Europa, nel film “Mater Natura”, quella che, quando
racconta che le hanno staccato la luce, dice “E fa niente, Ch'ammo a fa?
Noi esistevamo prima della corrente elettrica e indipendentemente dalla
corrente elettrica continueremo ad esistere ancora” (Mater Natura, di
Massimo Andrei, 2005).
Nel suo asilo
improvvisato, nei quartieri spagnoli di Napoli, questa persona gender
non conforming, lascia che i bambini scelgano come farsi chiamare,
scelta che viene rispettata da tutta la piccola comunità, aprendo uno
sconfinato spazio di libertà e di autodeterminazione in mezzo ad uno
squallore quotidiano.
Vorrei che questa
libertà fosse lasciata anche agli animali altro da umani, che hanno il
diritto di non essere chiamati in nessun modo, perchè non è con i nostri
nomi che vengono alla realtà.
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